Per il Pd una boccata d'ossigeno. L'assalto delle truppe leghiste da Ovest e da Est verso Bologna, si è fermato alle porte della città e a dire il vero già nel reggiano da una parte e nel forlivese dall'altra.
La Lega, infatti, da Ovest vince nel piacentino e a Piacenza città, nel parmense - però non a Parma città - ma si ferma nel reggiano e via via che ci si muove verso il centro storico di Bologna la vittoria di Bonaccini appare più netta fino ad assumere i contorni di un plebiscito nel centro cittadino, dove il barbuto ottiene più del doppio dei voti della Borgonzoni. Stesso discorso da nordest e da sudest, vittoria padana nel ferrarese e a Ferrara città, nel riminese e a Rimini città, ma l'avanzata si ferma a Forlì-Cesena.
Tre fattori della vittoria del Pd: 1) Lo stesso Bonaccini, che con la sua lista civica fa letteralmente la differenza, prendendo centotrentamila voti (6%), che sono quasi l'esatta differenza tra le due coalizioni (un milione e due il centrosinistra e un milione il centrodestra). Basti pensare che la lista civica della Borgonzoni si ferma all'1,7 prendendo appena 40mila voti.
2) Come detto sopra la realtà territoriale, con l'area di Bologna che porta quasi il 30% dei voti complessivi alla coalizione di centrosinistra e più in generale si conferma una tendenza già vista, cioè la Lega vince nelle periferie e nei territori rurali e il Pd che si arrocca nei centri cittadini.
3) Le sardine, che hanno portato in dote i voti di estrema sinistra che negli anni scorsi erano andati ai cinque stelle, i quali infatti sono praticamente scomparsi, ma non solo, anche dalle tante liste di estrema sinistra che in Emilia-Romagna storicamente sono forti: in questa tornata se ne presentavano ben tre, una neostalinista, una movimentista-centrosocialesca e una postvendoliana, ma sommate tutte insieme raccolgono solo l'1 per cento dei voti.
Tutti questi aspetti in realtà non fanno che rendere ancora più aggrovigliata la situazione in casa piddina. Bonaccini, per esempio, sembra intenzionato a mettersi alla testa della neocorrente del "Pd del nord", il partito degli amministratori che competono sul terreno con la lega e potrebbero tentare ora una controffensiva in Veneto, ma sopratutto la scalata al partito romano.
La realtà territoriale non fa che confermare la tendenza del Pd ad arroccarsi nei centri storici perdendo il contatto con vaste fasce di territorio e ceti sociali.
Le sardine portano in dote voti, ma vorranno in cambio qualcosa e rendono ancora più confusa l'identità di un partito che nominalmente si dice socialdemocratico, riformista, ma è ingrossato da una base elettorale sempre più radicale, rabbiosa e composta non più dall'elettorato storico operaio comunista di un tempo, ma bensì dagli ex sessantottini di matrice intellettuale-professionistica, che negli anni'70 erano nella sinistra extraparlamentare, oltre che dai paragrillini.
D'altra parte, un così azzeramento dei grillini stessi, da una parte cambia i rapporti di forza all'interno del governo a favore del Pd, ma dall'altra fa del Pd un partito alleato con lo zero e di fatto il governo è così ulteriormente delegittimato.
Per quanto riguarda il centrodestra è la sconfitta di Salvini, ma non della Lega. Il partito supera il 30 per cento prendendo settecentomila voti (poco meno del Pd), cioè trequarti della coalizione di centrodestra, mentre Forza Italia "scompare" al 2,5% e Fratelli d'Italia non supera la fatidica soglia del 10%. Eppure il leader, avendoci messo la faccia, ne esce sconfitto, ma alla luce dei fatti la sua leadership nel centrodestra al momento potrebbe essere messa in discussione più da un altro esponente leghista che da Berlusconi e la Meloni. Viene in questo senso in mente l'accoglienza gelida che la platea dei delegati della lega riservò a Salvini all'ultimo congresso a Milano, quando questi invitava il partito e i suoi militanti a "uscire dalle stanze", a inserire idee e volti nuovi e a guardare al futuro dandosi anche una dimensione di geopolitica internazionale.
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