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mercoledì 8 novembre 2017

Dalle elezioni siciliane alle nazionali, il Pd alla ricerca del varco giusto

Immancabile dopo le ultime elezioni siciliane si è alzato il grido di dolore sull'astensione, in realtà è stata la stessa delle precedenti elezioni regionali, in una regione storicamente astensionista. Il Pd prende praticamente gli stessi voti del 2012, una sconfitta per il renzismo e la sua ambizione ad allargare il perimetro elettorale del partito, che però non si traduce automaticamente in una vittoria della sinistra antirenziana, come qualcuno pensa. Anche la sinistra radicale, infatti, raccoglie gli stessi (pochi) identici voti e percentuali della precedente tornata, mentre gli scissionisti non portano alcun contributo in più. In termini di coalizioni non bisogna dimenticare che il centrosinistra di Crocetta era sostenuto anche dall'Udc, con 200mila voti, oggi tornato al centrodestra. Il centrodestra era dunque diviso in tre e ora ritorna unito, vincendo inevitabilmente, ma in termini assoluti prende meno voti. Aumentano contemporaneamente i voti dei grillini, con il candidato governatore che prende però quasi dieci punti in più del partito, il contrario del candidato di centrosinistra, che prende quasi dieci punti in meno della coalizione che lo sosteneva. L'impressione è che ci sia stato un certo voto disgiunto da parte di circa centomila elettori siciliani che hanno votato per la coalizione di centrosinistra da una parte, ma per il candidato grillino dall'altra. Una componente della base elettorale, che sembra ancora sognare il governo dello streaming Bersani-Grillo, mandando messaggi un po' ricattatori con il voto disgiunto, che però escludono l'opzione Mpd, rimanendo di fatto ancorati al Pd, oscillando verso i cinque stelle. Ad ogni modo c'è un elemento di continuità, a parte l'incremento grillino, il quale non è tale però da farli vincere e che rende felice il partito 5 stelle, ben contento di arrivare sempre secondo in modo da essere il vincitore morale senza assumersi responsabilità di governo, ma tornando al centro del teatrino mediatico. A chi pensa a continui terremoti politici e rivolgimenti bisogna ricordare che in Italia dal 1945 al 1968 l'80% degli elettori votò sempre per lo stesso partito, che fosse il Pci, la Dc o il Psi, mentre un maggiore leggero rimescolamento nei due decenni successivi non provocò reali cambiamenti degli equilibri fino al 1992, quando il panorama politico mutò totalmente grazie a fattori esterni e cambiamenti epocali e internazionali. Dopo di chè, con la nascita di Forza Italia, dal 1994 al 2013 i blocchi elettorali rimasero sigillati, con i due poli a fronteggiarsi, dove il centrosinistra era in grado di vincere solo a fronte di un centrodestra diviso o accorpando una coalizione iperallargata, incapace poi di governare. L'irruzione dei grillini nel 2013 è il secondo terremoto politico dopo il 1992 nella storia della Repubblica, ma l'impressione è che ora si ritorni verso una stabilizzazione del voto, con il centrodestra che se unito torna ad essere fisiologicamente maggioritario nel paese, ma in realtà profondamente diviso tra i partiti che lo compongono. Il Pd, invece, non riesce ad allargare i propri consensi, ma allo stesso tempo non soffre le innumerevoli scissioni alla sua sinistra, mantenendo la sua base tradizionale, con la sinistra radicale ridotta all'irrilevanza come da dieci anni a questa parte, nonostante la sovravisibilità mediatica, e i grillini stabilizzati intorno al 25% . La mia impressione è che alle prossime elezioni nazionali ci sarà un risultato molto simile a quello del 2013, con la differenza che il centrodestra sarà unito, almeno formalmente, e una sola incognita: Cosa farà quell'area sopracitata che si trova a metà strada tra il Pd e i cinque stelle, i classici populisti rossi eternamente "delusi" dalla sinistra, che sognano di radicalizzare il Pd riportandolo a mitiche "origini" massimaliste mai esistite, ma senza la base popolare di un tempo ne' una solida sovrastruttura ideologica, esprimendo solo un malcontento postmoderno, gruppettaro ed esistenziale, un nostalgismo senza storia, un disagio vittimistico che esige uno stato d'animo esagitatorio rivolto sempre contro qualcuno e antiqualcosa? Ma allo stesso tempo, questa base elettorale, che coincide principalmente con i vari strati delle borghesie urbane, vuole incidere, rifiutando soluzioni elettorali velleitarie e marginali e in questi anni è per lo più rimasta ancorata al centrosinistra, seppur con atteggiamenti distruttivi, per la logica del voto utile contro Berlusconi, perchè le alternative con la falce e martello erano forse poco smart e marginali, perchè appunto c'era un nemico ben identificato. E ora Di Maio li attira a sè riprendendo in mano la bandiera dell'antiberlusconismo, ma anche cercando di far percepire il Pd come ormai terza forza e quindi voto inutile. Dall'altra parte si spiega il Renzi "populista" di queste ultime settimane, l'attacco alle banche, il ritorno dell'antifascismo militante, la testardaggine ideologica di parti del Pd nel mantenere accesa l'opzione Ius Soli, un modo per tenere a sè questa area elettorale, in grado di fare la differenza tra chi arriverà secondo (grillini o PD?) dietro ad un centrodestra ormai in fuga. La situazione in questo varco per il Pd è difficile, Di Maio cercherà l'effetto traino dalle elezioni siciliane, presentandole come una miniatura fedele del panorama italiano, dipingendo i giochi come già fatti e ormai irrisorio il Pd, presentandosi come la nuova opposizione al futuro governo Berlusconi in una logica di antagonismo conservatore. Inoltre, la natura stessa del Pd, nato per superare la sinistra dell'Anti, renderà difficile rispolverare l'antiberlusconismo, se non sconfessando la linea degli ultimi anni, mentre per i grillini, con la loro natura giustizialista e contro, sarà facile presentarsi come i veri antiberlusconiani doc. Riassumendo, la mia tesi è che dopo un periodo di mobilità elettorale, dipesa dall'instabilità economica, geopolitica e istituzionale degli ultimi anni, gli italiani stanno ritornando alla loro tradizionale fedeltà verso i propri partiti e aree politiche di riferimento. Se non ci saranno scossoni economici, geopolitici o giudiziari, la loro scelta è praticamente già avvenuta, rimane però per l'appunto quel 3% di elettorato indeciso tra il Pd e Grillo o che in qualche modo esprime una domanda di Pd grillinizzato. C'è però una via d'uscita, non sconfessare tutti questi anni, non farsi ricattare da queste frange e puntare invece ad acuire le divisioni nel centrodestra, smentendo l'immagine che Berlusconi dà di sè come argine moderato alla destra populista, ma al contrario presentandolo come succube di essa, riportando un po' di voto moderato al Pd. D'altra parte l'idea di un Pd alleato contemporaneamente con il centro e i radicalismi sinistri vorrebbe dire riproporre un ulivismo senza Prodi e D'alema. Non ha molto senso, mentre Renzi deve scegliere, o rompere con i radical-sinistri o rompere con il centro e i moderati. Un atteggiamento famelico, che in nome del mito del 40%, punta a prendere contemporaneamente i voti di Forza Italia e quelli sinistro-grillini, rischia invece di lasciare a bocca asciutta da una parte e dall'altra.

mercoledì 1 novembre 2017

La strategia di Togliatti per il potere

Alla base della strategia per il potere di Togliatti c'è l'alleanza tra la classe operaia e il ceto medio. Immune da un certo schematismo classista che per ragion di stato aveva dovuto riverire, il segretario del Pci sa che in Italia sono i ceti medi a fare la differenza, ma per ceti medi non intende i ceti medi riflessivi che saranno in futuro tanto cari ad intellettuali come Ginzburg e a una certa intellighenzia di sinistra, ma gli artigiani, i mezzadri, gli agricoltori, i piccoli imprenditori, i professionisti urbani, insomma, tutta la colonna vertebrale produttiva della nazione. Convinto che una certa violenza sindacale da bienno rosso, priva di una strategia per il potere e di uno sbocco politico, abbia gettato nelle braccia del fascismo i ceti medi, tutta la sua politica è volta a non spaventarli e a cercare una convergenza con essi. Ciò porta il migliore a vedere nel partito che li rappresenta l'interlocutore privilegiato, cioè la democrazia cristiana, più di un partito socialista e di un partito d'azione dominati da spinte massimalistiche ed estremistiche. Allo stesso tempo per Togliatti la borghesia non ha più nessuna funzione progressiva ed è in toto reazionaria, intesa nella sua fase suprema di capitalismo finanziario e imperialistico, perciò l'Italia è matura per il passaggio al socialismo, ma solo se la classe operaia saprà essere non settaria e in grado di portare dalla propria parte i ceti medi. Tutta questa architettura si scontra con la consapevolezza del capo dei ceti medi, De Gasperi, della inconciliabilità di obbiettivi futuri tra la prospettiva della dittatura del proletariato, seppur mitigata in un'idea di democrazia popolare, e la scelta di campo liberale, occidentale e democratica. Nonostante ciò Togliatti non demorderà e cercherà all'inizio degli anni '60 una sponda con il mondo cattolico, intravvedendo in maniera precorritrice quella che verrà in seguito definita la fuoriuscita dall'occidente della chiesa cattolica, cercando un dialogo non solo per l'appunto con il nascente fermento antioccidentale di certe correnti e settori ecclesiastici, ma anche con il concetto di dittatura, che Togliatti sa che settori della chiesa non rinnegano. Una convergenza quindi in chiave antiliberale e antiindividualistica, che è in qualche modo una costante nel progetto storico del dirigente comunista, che già con l'appello ai fratelli in camicia nera nella metà degli anni '30, aveva inteso la riconciliazione nazionale in senso antidemocratico e antiliberale, cercando la convergenza con quei settori del fascismo antioccidentali e anticapitalistici.